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L’intelligenza artificiale, cavallo di Troia nella filosofia dell’informazione



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Questa tecnologia ha introdotto un paradigma più computazionale e informazionale nella “cittadella filosofica”. Il concetto è contenuto nel libro di Luciano Floridi, “Filosofia dell’informazione”, edito da Raffaello Cortina

Pubblicato il 9 ott 2024



Floridi Filosofia dell'informazione

Il volume Filosofia dell’informazione, di Luciano Floridi (edizione italiana a cura di
Massimo Durante) è frutto di lunghi anni di studio e presenta il primo programma di ricerca unitario e coerente per quello che era un campo ancora inesplorato: la filosofia dell’informazione, appunto.

“La ricerca filosofica sui temi della computazione e della teoria dell’informazione è diventata sempre più feconda e diffusa – scrive Floridi nell’Introduzione per spiegare il titolo del libro – in quanto è capace di aggiornare vecchie questioni filosofiche, sollevare nuovi problemi e contribuire a ripensare le nostre visioni del mondo: essa ha infatti già prodotto una messe considerevole di risultati stimolanti e importanti. Gli studiosi hanno suggerito varie denominazioni per definire questo nuovo ambito di ricerca. Taluni prediligono una terminologia alla moda (come, per esempio, “cyberfilosofia”, “filosofia digitale” o “filosofia computazionale”); la maggioranza adotta specifici orientamenti teorici (come, per esempio, quelli di “epistemologia formale”, “filosofia dell’informatica”, “filosofia della computazione”, “filosofia dell’intelligenza artificiale”, “computer e filosofia”, “computazione e filosofia”, “filosofia dell’artificiale” o “epistemologia dell’artificiale”). Nel presente capitolo, sostengo che la denominazione filosofia dell’informazione (fi) sia la più convincente.”

Ecco un estratto del volume che riguarda da vicino l’intelligenza artificiale.

La filosofia dell’intelligenza artificiale come paradigma precursore della FI

André Gide ha detto una volta che non si scoprono nuove terre senza accettare di abbandonare la riva per lungo tempo. Alla ricerca di nuove terre, nel 1978 Aaron Sloman aveva annunciato l’avvento di un nuovo paradigma filosofico basato sull’intelligenza artificiale. In un libro, intitolato appropriatamente The Computer Revolution in Philosophy (La rivoluzione del computer in filosofia), aveva ipotizzato:

i. che se, di lì a breve, vi fosse stato ancora qualche filosofo all’oscuro dei principali sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale sarebbe stato tacciato giustamente di incompetenza professionale;

e ii. che tenere corsi di filosofia della mente, epistemologia, estetica, filosofia della scienza o del linguaggio, etica, metafisica o di altri importanti settori della filosofia, senza discutere gli aspetti rilevanti dell’intelligenza artificiale, sarebbe stato tanto irresponsabile quanto costruire un corso di laurea in fisica che non includesse la teoria quantistica.²

Sfortunatamente, la previsione si è rivelata inesatta e troppo ottimistica. Tuttavia, era tutt’altro che ingiustificata.³ Inoltre, Sloman non era un caso isolato. Altri studiosi avevano correttamente percepito che le trasformazioni pratiche e concettuali indotte dalle scienze dell’informazione e della computazione (ics) e dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ict) stavano generando un cambiamento macroscopico non solo nella scienza ma anche nella filosofia. Si trattava della cosiddetta “rivoluzione del computer” o “svolta informativa”, che ho riassunto nei termini della quarta rivoluzione nella comprensione di noi stessi, la quale ha fatto seguito alle rivoluzioni copernicana, darwiniana e freudiana.⁴ Come Sloman, anche gli altri studiosi sembravano aver frainteso la natura esatta di tale evoluzione e sottostimato l’accanita resistenza che l’accettazione del nuovo paradigma della fi avrebbe incontrato.

Turing aveva iniziato a pubblicare i suoi fondamentali contributi nel 1930. Durante i successivi cinquant’anni, la cibernetica, la teoria dell’informazione, l’intelligenza artificiale, la teoria dei sistemi, l’informatica, la teoria della complessità e le ict erano riuscite a suscitare qualche significativo, per quanto sporadico, interesse nella comunità filosofica, soprattutto in termini di filosofia dell’intelligenza artificiale.⁵ Queste discipline avevano dunque preparato il terreno per l’avvento di un autonomo ambito di ricerca e di un nuovo approccio filosofico basato sulla computazione e teoria dell’informazione. Fino agli anni Ottanta, tuttavia, non riuscirono a dare vita a un programma di ricerca maturo, innovativo e influente, per non parlare del cambiamento rivoluzionario per grandezza e rilevanza che era stato immaginato da studiosi come Sloman negli anni Settanta. Fu una sfortuna, forse inevitabile. Con il senno del poi, è facile comprendere che l’intelligenza artificiale avrebbe potuto essere percepita come un nuovo e stimolante ambito di ricerca e la fonte di un approccio radicalmente innovativo alle questioni tradizionali della filosofia: Sin dai tempi dell’influente articolo di Alan Turing, “Computing machinery and intelligence” […], e la nascita del campo di ricerca dell’intelligenza artificiale alla metà degli anni Cinquanta, vi è stato un considerevole interesse tra gli informatici per la teoria della mente. Al contempo, cresceva tra i filosofi la sensazione che la nascita dell’informatica avrebbe modificato in modo decisivo i dibattiti filosofici, proponendo nuove posizioni teoretiche da considerare o quantomeno da rigettare.⁶

Pertanto, l’intelligenza artificiale ha agito come un cavallo di Troia, introducendo un paradigma più computazionale e informazionale nella cittadella filosofica.⁷ Fino alla metà degli anni Ottanta, tuttavia, la fi era ancora percepita come qualcosa di prematuro, con un carattere transdisciplinare piuttosto che interdisciplinare: le comunità filosofiche e scientifiche, in ogni caso, non erano ancora pronte per il suo sviluppo; e altrettanto impreparato era il contesto culturale e sociale. Ciascun fattore merita un breve chiarimento. Come altre imprese intellettuali, la fi si occupa di tre diversi domini: temi (fatti, dati, problemi, fenomeni, osservazioni ecc.); metodi (tecniche, approcci ecc.); e teorie (ipotesi, spiegazioni ecc.). Una disciplina è prematura se cerca di innovare in più di un dominio alla volta, distaccandosi in tal modo troppo bruscamente dal corso dello sviluppo normale e ininterrotto del suo ambito generale.⁸

Un rapido sguardo ai due punti sollevati da Sloman nella sua previsione mostra che questo è proprio quanto è accaduto alla fi nella sua prima apparizione come filosofia dell’intelligenza artificiale. L’inevitabile interdisciplinarità della fi aveva ulteriormente ostacolato la prospettiva di un riconoscimento tempestivo della sua importanza. Persino ora, molti filosofi ritengono che le questioni discusse nella fi meritino soltanto l’attenzione di taluni studiosi nei dipartimenti di comunicazione, studi culturali, informatica o sociologia, per fare qualche esempio. La fi aveva bisogno di filosofi che fossero abituati a trattare questioni culturali e scientifiche al di là dei reciproci confini disciplinari, e ciò era piuttosto raro. Molto spesso, la preoccupazione di tutti non riguarda nessuno e, fino ai recenti sviluppi della società dell’informazione, la fi è stata percepita come una disciplina troppo collocata al crocevia di questioni tecniche, nodi teoretici, problemi concreti e analisi concettuali, per costituire realmente il settore di specializzazione di qualcuno. La fi era percepita come transdisciplinare alla stregua della cibernetica o della semiotica, invece che come interdisciplinare alla stregua della biochimica o delle scienze cognitive. Tornerò in seguito su questo problema.

Anche se la fi non fosse stata così prematura o percepita come fortemente transdisciplinare, la comunità filosofica e quella scientifica in generale non sarebbero comunque state pronte a cogliere la sua importanza. Vi erano consolidati programmi di ricerca, specialmente nell’alveo delle filosofie del linguaggio (di stampo logico-positivo, del senso comune, postmoderne, decostruzioniste, ermeneutiche, pragmatiche ecc.), che attraevano la maggior parte delle risorse intellettuali e finanziarie, mantenevano un’agenda alquanto rigida e difficilmente promuovevano lo sviluppo di paradigmi alternativi. La filosofia mainstream non può fare a meno di essere conservatrice, non solo perché i valori e gli standard sono di regola meno fissi e chiari in filosofia che nella scienza, e per questo più difficili da sfidare, ma anche perché questo è il contesto in cui una posizione culturalmente dominante è conquistata alle spese di approcci innovativi o non convenzionali. Di conseguenza, pensatori come Church, Shannon, Simon, Turing, von Neumann o Wiener furono sostanzialmente confinati alla periferia del canone tradizionale. Di certo la svolta computazionale ha investito la scienza molto più rapidamente. Ciò spiega perché alcuni scienziati dalla mentalità filosofica furono tra i primi a percepire l’emergere di un nuovo paradigma. Nondimeno, la “rivoluzione del computer” di Sloman ha dovuto attendere fino agli anni Ottanta per diventare un diffuso fenomeno di massa in vari contesti scientifici e sociali, creando in tal modo un terreno fertile per lo sviluppo della fi.

A più di mezzo secolo dalla costruzione dei primi mainframe, lo sviluppo della società umana ha ormai raggiunto una fase in cui le questioni relative a creazione, dinamica, gestione e utilizzo delle risorse informative e computazionali sono riconosciute come assolutamente vitali. Tuttavia, le società più sviluppate e la cultura occidentale hanno dovuto passare attraverso una rivoluzione nelle comunicazioni digitali prima di poter apprezzare appieno la novità radicale del nuovo paradigma. La società dell’informazione è stata prodotta dalla tecnologia in più rapida crescita della storia. Nessuna precedente generazione è mai stata esposta a una così straordinaria accelerazione del potere tecnologico sulla realtà, con i relativi cambiamenti sociali e responsabilità etiche. La loro totale pervasività, plasticità e potenza hanno elevato le ict allo status di tecnologia caratteristica del nostro tempo, dal punto di vista fattuale, retorico e persino iconografico. Il computer si presenta come una tecnologia che definisce una cultura ed è diventato un simbolo del nuovo millennio, svolgendo un ruolo culturale molto più determinante di quello dei mulini nel Medioevo, degli orologi meccanici nel XVII secolo, del telaio o della macchina a vapore nell’età della Rivoluzione industriale.⁹ Le applicazioni Ics e Ict sono oggi tra i fattori più strategici che governano la scienza, la vita sociale e il suo futuro. Le società postindustriali più sviluppate vivono letteralmente di informazioni e le Ics-Ict le mantengono costantemente ossigenate. Eppure, tutte queste trasformazioni profonde e molto significative erano a malapena visibili due decenni fa, quando la maggior parte dei dipartimenti di filosofia avrebbe considerato i temi di fi come ambiti di specializzazione inadatti per uno studente laureato.

Troppo in anticipo sui tempi e scoraggiantemente innovativa per la maggior parte dei filosofi di professione, la fi ha oscillato per qualche tempo fra due alternative. Ha creato una serie di nicchie di ricerca interessanti ma limitate, come la filosofia dell’intelligenza artificiale o l’etica del computer, spesso distaccandosi dal suo background intellettuale. Per altro verso, la fi è stata assorbita all’interno di altri settori in quanto metodologia, allorché è stata percepita come un approccio computazionale o di teoria dell’informazione ad argomenti altrimenti tradizionali, in aree classiche come l’epistemologia, la logica, l’ontologia, la filosofia del linguaggio, la filosofia della scienza o della mente. Entrambe le tendenze hanno contribuito all’emergere della fi come autonomo ambito di ricerca.


² Vedi anche Sloman (1995); McCarthy (1995).
³ Vedi per esempio Simon (1962); McCarthy, Hayes (1969); Pagels (1988), che argomentano in favore di un paradigma della teoria della complessità, nonché Burkholder (1992), che parla di “svolta computazionale”.
⁴ Floridi (2008a).
⁵ Nel 1964, nell’introduzione alla sua influente antologia, Anderson affermava che il campo della filosofia dell’ia aveva già prodotto oltre mille pubblicazioni (Anderson, 1964, p. 1). Non stupisce che siano sorti tali progetti editoriali (talvolta in sovrapposizione). Tra i titoli disponibili, il lettore di questo capitolo potrà voler tenere a mente Ringle (1979) e Boden (1990), che indicano due altre buone collezioni di scritti, e Haugeland (1981) – che si proponeva espressamente quale seguito di Anderson (1964) – poi ulteriormente aggiornato in Haugeland (1997).
⁶ Torrance (1984, p. 11).
⁷ Precedenti esposizioni di queste tesi si ritrovano in Simon (1962, 1996); Pylyshyn, Bannon (1970); Boden (1984); più di recente, in McCarthy (1995) e Sloman (1995).
⁸ Stent (1972).
⁹ Bolter (1984).

Luciano Floridi è direttore del Digital Ethics Center e professore nel programma di Scienze cognitive all’Università di Yale. Dal 2021 è professore presso il dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Bologna.
Tra i vari premi e riconoscimenti, nel 2022 è stato nominato dal presidente Mattarella Cavaliere di Gran Croce OMRI per il suo lavoro fondamentale in filosofia.

Ha pubblicato, fra gli altri, “La quarta rivoluzione” (2017), “Pensare l’infosfera” (2020), “Il verde e il blu” (2020) e “Etica dell’intelligenza artificiale” (2022).

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