Alla fine è successo all’improvviso: le tecnologie digitali per la conoscenza hanno conquistato il centro della scena, superando con un salto difficoltà reali, diffidenze, polemiche e ostracismi. Tutto questo per via della prima vera pandemia dai tempi della Spagnola, di cui abbiamo saputo dai libri di scuole (libri di carta, ovviamente).
L’innovazione digitale è arrivata con uno tsunami fatto di smart working, commercio digitale (e denaro elettronico) e, appunto, TEL (Technology Enhanced Learning, ma chi preferisce la vecchia maniera lo chiami pure “e-learning”). Messo a tacere il coro dei contrari “a prescindere”, una quantità spropositata di persone ha imparato dall’oggi al domani Zoom, Meets, Teams e Skype, verificando che il computer in casa è un bene essenziale e che c’è una grande differenza tra una connessione in fibra e la zoppicante Adsl. E arrivando a considerare Internet e la banda larga un diritto del cittadino, al pari di acqua, luce, gas e telefono.
Ci sarebbe da esultare, se non fosse che, almeno per quanto riguarda didattica e formazione, queste tecnologie non sono impiegate al meglio: la velocità dell’innovazione è inversamente proporzionale alla qualità dell’esperienza. Rischiamo così di uscire da questa storia producendo anticorpi non contro il virus, ma contro le tecnologie.
Perché? Il motivo diventa chiarissimo se si parte dal modo con cui apprendiamo.
Come apprendiamo
Quello che sappiamo del processo di apprendimento si riassume in due parole: attivo e collaborativo. Vuol dire che di fronte a un flusso di informazioni in entrata (come in una lezione), la mente non si limita a riporle tali e quali in un recipiente. Al contrario, fa un lavoro intenso: le acquisisce, le seleziona decidendo quali sono rilevanti e quali no e, soprattutto, le integra, combinandole con l’insieme delle conoscenze precedenti. Se questa combinazione è facile, tutto fila liscio. Se ci sono lacune, discordanze o conflitti la faccenda si complica, perché la mente non tollera contraddizioni e cerca di risolverle attivando la rielaborazione sia delle nuove, sia delle vecchie conoscenze. Un processo che richiede tempo ed energie per riflettere, sperimentare, cercare ulteriori informazioni, confrontarsi con altre persone…
Se tempo ed energie non ci sono, la mente risolve il problema chiudendo il flusso di informazioni, dando origine al fenomeno noto come “entra da un orecchio ed esce dall’altro”.
Tutto questo in teoria è arcinoto e chiunque sa che il modello “istruzionista”, quello che considera il discente come un vaso vuoto da riempire, non funziona. Anche se nella pratica viene ampiamente utilizzato per inerzia, abitudine, disinteresse o “in mancanza d’altro”. C’è da aggiungere che i bravi insegnanti correggono il modello istruzionista con dosi variabili di esercitazioni, stimoli e interruzioni, intavolando dialoghi e accettando volentieri domande e richieste di chi “non ha capito”.
E la tecnologia? Ha tutte le potenzialità per supportare pratiche nuove e più efficaci, adeguate alle persone che apprendono, pensano e comunicano.
Peccato che stia succedendo tutt’altro. La situazione è resa molto bene da una metafora: “La carrozza senza cavalli”.
“La carrozza senza cavalli”
Alla fine del XIX secolo, l’automobile era una novità. “Automobile” però è come la chiamiamo oggi. I primi veicoli assomigliavano a carrozze e come tali erano venduti: “carrozze senza cavalli”. Notare la struttura non casuale della frase: parte dal già noto (“carrozze”) e aggiunge un quasi-ossimoro per marcare la differenza. “senza cavalli”, appunto.
Oggi i limiti dell’innovazione frettolosa e forzata si vedono tutti. A scuola e all’università la novità è la “lezione a distanza”, con il complemento di “interrogazioni a distanza”. Allo stesso modo, molta della formazione aziendale si trasferisce di peso alla “videolezione” con un’equiparazione 1 a 1: un’ora di (video)lezione viene pagata, valutata e certificata alla stregua di un’ora di aula. Sottinteso: lezione e videolezione, in presenza o a distanza, fa lo stesso.
Ma non è vero, perché oltre a perdere l’occasione per applicare modelli nuovi, il modello istruzionista si implementa nella sua versione peggiore, senza neanche le correzioni applicate da un buon docente. Non è Technology Enhanced Learning, ma Technology Enhanced Teaching. Un tentativo di retroguardia, ma (al momento) vincente di cambiare tutto per non cambiare niente. Un non-cambiamento di dimensioni mai viste e, fino a poco fa, inimmaginabili.
Ma oggi che le tecnologie sono quantomeno familiari anche ai più riottosi tra gli insegnanti e i formatori, abbiamo una grande occasione per attivare in modo massiccio le pratiche nuove ed efficaci a cui accennavo sopra. Il punto di partenza è un obiettivo ambizioso: non surrogare l’aula, ma adottare modelli evoluti per fornire esperienze di apprendimento diverse e migliori di quelle consentite dalla didattica istruzionista. Per dirla con le parole di Seymour Papert, uno dei pionieri del TEL (famoso per aver inventato il linguaggio Logo), vogliamo “ottenere il massimo dell’apprendimento con il minimo dell’insegnamento”.
Quali nuovi modelli per quali esperienze? Eccone almeno tre – in prospettiva, quattro – tutti collegati tra loro.
Modello numero uno: la lezione “aumentata”
C’è modo e modo di fare lezione. Si può fare bene quando se ne capiscono funzioni e limiti.
La funzione privilegiata è fornire informazioni che siano:
- difficilmente reperibili in altro modo;
- pre-elaborate in modo da costruire chiavi di lettura (o, se si vuole, narrazioni) e non basi di dati;
- in quantità limitata (perché richiedono a chi le riceve un lavoro notevole).
La lezione a distanza può dare un grande valore aggiunto se la tecnologia non è usata solo per trasmettere la faccia del docente che parla. Perché in una videolezione abbiamo internet a portata di mano, cioè tutta la conoscenza del mondo, in modo nativo.
Ho avuto un bell’esempio pochi giorni fa, in una “visita guidata” online che consentiva di apprezzare il contenuto nascosto della “Primavera” di Botticelli: dallo stile alla storia dell’opera, da significato dei personaggi a quello delle decine di specie botaniche che vi sono rappresentate. Sarebbe stato impossibile sia andando di persona agli Uffizi in mezzo alla calca, sia in un’aula dove la migliore lavagna multimediale ha una visibilità incommensurabilmente minore di un bel monitor a pochi centimetri.
Modello numero due: la didattica costruttivista
In un’attività didattica e formativa online, la parola chiave è “blended”, “miscelato”. Significa che la lezione è solo uno degli ingredienti e neanche il principale. Perché la “miscela” che cerchiamo è quella che supera il modello istruzionista, basato sull’insegnamento, spostando il focus sull’apprendimento. Un modello che chiamiamo “costruttivista”: chi apprende non è un vaso da riempire, ma un costruttore che erige edifici concettuali acquisendo, anzi cercando attivamente, “materiali” partendo da informazioni, esperienze e relazioni.
Con questa impostazione, gli ingredienti di un progetto formativo sono tre:
- Fonti di informazioni: (video)lezioni e un repository di dispense, articoli, immagini, filmati e materiali multimediali realizzati ad hoc o reperiti in rete.
- Una serie di esperienze, in cui verificare le informazioni e ricavarne di nuove. Attenzione: non si tratta (o al meno non solo) di semplici esercitazioni, in cui mettere in pratica un certo insegnamento teorico per trovare soluzioni note, ma di un lavoro di esplorazione e ricerca. Il concetto è molto ampio: dal racconto di una storia alla costruzione di un oggetto, dalla riflessione personale alla gestione di un complesso mondo virtuale.
- Un ambiente collaborativo, fatto di chat, forum, social network e, perché no, incontri in presenza, che consenta a partecipanti, docenti e tutor di confrontarsi, scambiarsi idee, domande, risposte, problemi e soluzioni.
Perché funzioni, niente va lasciato al caso. Servono una progettazione accurata e una guida costante, dove emerge la figura professionale del tutor online le cui competenze tecnologiche, didattiche e comunicative sono molto, molto più ampie di quelle del tutor d’aula.
Modello numero tre: la simulazione e il gioco
Alla critica radicale del modello istruzionista, va aggiunto che la potenzialità dell’esperienza diretta è abbondantemente sopravvalutata. Fare esperienza è coinvolgente, persino emozionante, ma è facilissimo apprendere le cose sbagliate o innescare un processo per prove ed errori eccessivamente lento. Dall’esperienza, capiamo subito che è il Sole che gira attorno alla Terra, mentre per scoprire le vere leggi del moto ci sono voluti millenni…
Al contrario, la simulazione in ambienti virtuali (serious game, business game o altro) è sempre un’esperienza, ma molto più efficace, perché progettata ad hoc, mantenendo solo gli aspetti realmente importanti. Possiamo metterci in gioco per gestire aziende, pilotare aerei, costruire città, dialogare, vendere, organizzare, affrontare pericoli, comprimere il tempo per afferrare nessi causa-effetto che ci sarebbero sfuggiti oppure dilatarlo fino a fermarlo. E possiamo sbagliare senza danno, anzi sfruttando l’errore per attivare momenti di riflessione, confrontarci con gli altri, acquisire informazioni.
Per tutto questo, le simulazioni in ambiente virtuale sono tra gli strumenti più promettenti della didattica costruttivista.
Il futuro prossimo: ritorno al luogo fisico
C’è almeno un quarto modello, in realtà ancora acerbo, che nasce dall’ibridazione tra reale e virtuale. È la promessa dell’Internet delle cose, che le rende “intelligenti”, e della realtà aumentata, che collega il mondo fisico con un universo informativo, permettendoci di inquadrare con lo smartphone un sito archeologico per vedere com’era ai tempi di Augusto.
È un modello in divenire, le cui potenzialità formative sono ancora da esplorare, ma che ci aiuta a mostrare, casomai ce ne fosse bisogno, tutta la distanza che c’è tra le tecnologie dell’apprendimento e le tristissime lezioni a distanza. Prima superiamo la fase della “carrozza senza cavalli”, prima ci dispieghiamo tutta le potenzialità degli strumenti che ci servono per creare e condividere la conoscenza.