La robotica e i social robot possono essere dei validi alleati degli umani nella ricerca di forme di solidarietà tecnologica, come peraltro è stato raccontato in alcuni casi anche dal cinema e dalla Science Fiction. Si può arrivare al robot solidale?
Robot, solidarietà e pandemia
La solidarietà è una delle maggiori forme di impegno etico e sociale che l’uomo può esercitare nei confronti del prossimo e della collettività di cui è parte. Nei mesi segnati dalla pandemia, si è assistito a un fiorire di manifestazioni solidali tra gli individui; alcuni di questi gesti sono stati resi possibili dalla tecnologia, che ha avvicinato le persone nonostante il distanziamento sociale imposto come restringimento alla diffusione del virus. Durante il lockdown della primavera 2020 e, ancora oggi, i sistemi di videoconferenza e i media hanno reso meno difficile lo scorrere delle giornate, sia a livello lavorativo sia privato, e hanno permesso di parlarci e di incontrarci pur rimanendo protetti nelle nostre abitazioni. Ma solidarietà vuol dire anche prendersi cura degli altri, andare a trovare una persona sola, portarle una parola di conforto e, perché no, farla ridere, tenerle compagnia. E se la soluzione fosse nei robot? Proviamo a ipotizzare un’interpretazione differente del rapporto tra umani e non-umani per una solidarietà che miri al benessere di entrambi
Il robot come medium solidale?
Nella nostra quotidianità, il robot può aiutarci in molte azioni. Ci sono i robot aspirapolvere che ci fanno trovare la casa pulita, mentre altri, molto più complessi, aiutano e a volte sostituiscono gli umani nei lavori più pesanti, rischiosi e ripetitivi. Mentre sto scrivendo questo articolo, dei bracci robotici stanno probabilmente assistendo dei medici impegnati in operazioni chirurgiche, mentre altri si stanno occupando di attività di precisione. Poi ci sono i robot sociali, impiegati nelle strutture e nelle attività educative e in quelle di cura e di assistenza; ma anche i pet-robots (tra cui il famosissimo Paro, o i più recenti Kiki Robot e Nicobo, ancora in fase di prototipo), che possono essere presenti anche nelle abitazioni private, come forme di compagnia e di assistenza (come SAR, il Socially Assistive Robot). In qualche modo, tutti questi artefatti possono essere considerati anche come dei media di solidarietà, cioè come dei dispositivi che interagiscono con l’utente, dando vita a una manifestazione solidale.
Il robot Paro
Ovviamente, come primo punto, possiamo considerare solidale il fatto che alcuni media robotici consentano all’uomo di potenziare le proprie abilità (come i bracci robotici che ‘aiutano’ i medici durante le operazioni chirurgiche, o i più banali potenziamenti visivi di cui siamo circondati). Tuttavia, la base della mia ipotesi si posa su due aspetti specifici. Da un lato, c’è il fatto l’uomo tende ad antropomorfizzare gli oggetti con cui entra in relazione. Questo atteggiamento si verifica sia con cose di uso quotidiano, sia con strumenti tecnologici: ad esempio, viene naturale in alcune occasioni ringraziare il nostro assistente vocale perché ha trovato la soluzione a un problema che gli abbiamo posto. Inutile sottolineare che tale antropomorfizzazione risulta più facile se ci relazioniamo con un artefatto che ha anche alcune o molte somiglianze fisiche con noi, come è il caso degli umanoidi e degli androidi. Dall’altro lato, bisogna ricordare che la solidarietà è tendenzialmente un processo bidirezionale, che cioè riguarda sia l’agente destinante sia quello destinatario dell’atto. Questo significa che il compiere un gesto solidale comporta un sicuro guadagno per il destinatario, ma anche una specie di ‘ritorno’, cioè di crescita per il destinante, che si sente compartecipe dell’emotività altrui. Questo dovrebbe valere anche per il robot solidale.
Teoricamente, i robot e i social robot (come Nao o Pepper) con cui entriamo in contatto non dovrebbero avere alcun ‘ritorno’ dalla loro azione solidale. Questo perché, ricordo, sono macchine che simulano la risposta empatica alle nostre sollecitazioni. Tuttavia, noi umani possiamo immaginare di instaurare una relazione solidale con un robot in una forma molto simile a quella che potremmo avere tra due umani, proprio per la nostra capacità di antropomorfizzare l’oggetto e la relativa ‘anima’. Potremmo parlare di un rapporto ‘affettivo’ che si instaura tra i due agenti, umano e non-umano. Per l’uomo il guadagno solidale è evidente, poiché la relazione con il robot sociale regala delle forme di assistenza, di cura e di compagnia, oltre alla possibilità di interagire con un corpo che (simulando) pensa e agisce ‘come-se-fosse’. Durante la pandemia, abbiamo avuto molti esempi di questa interazione solidale uomo-macchina, sia nelle strutture ospedaliere sia in casi di abitazioni private, come testimoniato da diversi articoli scientifici[1] e giornalistici.
Il robot Pepper
Più euristica ma non meno intensa potrebbe invece essere la forma di benessere a favore del robot. Basandosi su alcune teorie di scienze cognitive e di robotica epigenetica[2], gli scienziati stanno lavorando affinché il robot possa sviluppare una serie di strutture e di meccanismi in grado di ampliare il proprio ventaglio emozionale, attraverso la relazione che può costruire con l’agente umano. In pratica, inseriti entrambi in un circuito di affettivo, l’agente non-umano sarebbe in grado di intervenire sulla propria crescita empatica e la propria capacità di esprimere e di sentire stadi emozionali. Si tratterebbe quindi di progettare e di sviluppare robot in grado di essere relazionali e di poter essere inseriti in circoli di co-determinazione con gli agenti umani. Quella bidirezionalità solidale di cui ho detto prima si manifesterebbe quindi in un percorso in cui entrambi gli agenti avrebbero di che guadagnare, sia a livello psi-fisico sia tecno-biologico sia empatico.
Il robot Nao
Qualche esempio di robot solidale dalla Science Fiction
Queste forme di relazione e di solidarietà che oggi intravediamo in talune azioni con i robot (e la loro AI) ci possono sembrare davvero i prodromi di un futuro, molto prossimo, di un benessere comune e soprattutto vicendevole. Peraltro, questa ipotesi non potrebbe avere ragione senza aver considerato gli immaginari che il cinema è in grado di proporci, spesso come delle forme di anticipazione (a volte distopica, a volte entusiastica) di che cosa avverrà nella realtà.
Una prima, filosofica, lettura di tale benessere solidale derivante dal rapporto uomo-macchina potrebbe essere offerta da Jay P. Telotte[3], secondo cui il periodo della storia del cinema contraddistinto dalla cosiddetta Machine Age (1914-1939) aveva come obiettivo diretto quello di raccontare l’avvento dell’automazione di massa e, indirettamente, di far comprendere agli uomini come la tecnologia non dovesse necessariamente distanziare l’umanità dal mondo, ma, piuttosto, favorirne un suo riavvicinamento. Dunque, potremmo dire che già agli albori del film, il cinema, con le sue metafore e la sua forza immaginifica, è stato uno strumento utile a sostenere questa particolare relazione empatica tra tecnologia e umanità. Conseguentemente, ripercorrere la storia del cinema di fantascienza può offrire degli spunti interessanti per cercare di corroborare la mia ipotesi interpretativa. È certamente un azzardo intravedere nella Maria di Metropolis (Lang, 1927) una prima forma di androide solidale; tuttavia, il robot programmato da Rotwang per incitare la rivolta degli operai della città, in qualche modo forse compartecipa empaticamente con loro, almeno simulando una sorta di presa emotiva nei loro confronti.
Ben diversi, con un grande salto temporale, sono i casi in cui i robot sembrano acquisire delle forme di empatia grazie al rapporto diretto stabilito con gli umani, anticipando quel processo di codeterminazione di cui ho accennato poco prima. In L’uomo bicentenario (Columbus, 1999), per esempio, NDR-114 è una sorta di Pinocchio tecnologico che desidera affrontare dei passaggi evolutivi del proprio essere: da robot ad androide e, infine, a umano, in un processo trasformativo che in fondo sembra rispondere anche alla nostra naturale propensione ad antropomorfizzare l’oggetto tecnologico. D’altra parte, in un film molto complesso come Ex Machina (Garland, 2015), l’umanoide Ava sembra sfruttare a suo favore quel rapporto ‘affettivo’ che si stabilisce con Caleb e che, di fatto, apre la strada verso il finale del film: in questo senso, potremmo dire che quella co-determinazione ha un’inclinazione a netto favore del robot e della sua AI e che l’umano ne risulta invece sconfitto.
L’Uomo Bicentenario (1999)
Ci sono poi produzioni seriali che sembrano riproporre il rapporto uomo-macchina dal punto di vista solidale. Fra queste, trovo significativa Better Than Us (Junkovsky, 2018), la cui protagonista Arisa, un androide di ultimissima generazione, aderendo perfettamente alle Tre Leggi della Robotica ideate da Asimov si prende cura della famiglia di umani che ha eletto come propria. La trama, risultato di un mix di Sci-fi e thriller, termina con un gesto eclatante dell’androide, che svela la sua natura bio-tecnologica e che dimostra come quell’essere ipoteticamente inseriti in un circuito relazionale con gli umani possa comportare guadagni vicendevoli nel raggiungimento di uno stato di benessere comune. Viceversa, quella stessa circolarità di affezione, basilare per l’ipotesi di una solidarietà uomo-macchina, porta a risultati del tutto differenti nelle stagioni di Westworld – Dove tutto è concesso (Nolan e Joy, 2016-), in cui la scoperta di una emotività ‘umana’ comporta in alcuni automi un cambio radicale di comportamento e l’acquisizione di una coscienza che segnala l’ineludibile affermazione della singolarità tecnologica, un po’ come nel già citato Ex Machina.
Ex Machina (2015)
Infine, un ultimo riferimento, di nuovo a un’opera cinematografica. In Robot & Frank (Schreier, 2012), l’anziano ex ladro Frank ha i primi segni di demenza senile. Per questo motivo, il figlio Hunter decide di affiancargli un umanoide appositamente progettato per prendersi cura di persone con degrado cognitivo. A un primo contatto, Frank rifiuta l’assistente robotico, tacciandolo di essere una specie di controllore (quasi un panottico foucauldiano); tuttavia, è grazie alla sensibilità che medium tecnologico manifesta in un preciso momento di difficoltà dell’uomo (quando cioè il robot ‘copre’ Frank dall’ennesimo piccolo furto di una saponetta) che Frank apre gli occhi. Di fronte non ha più un assemblage di eterogeneità meccaniche, ma un corpo e la simulazione di un’anima con cui stabilire un rapporto empatico. Si trova di fronte un non-umano amico che può aiutarlo e con cui può sodalizzare. L’uomo si lascia travolgere così tanto dal suo robot che quest’ultimo deve ricordargli più volte della sua natura tecnologica. Ciò nonostante, il finale del film svela come quella sensazione di gratitudine e di ‘guadagno’ solidale sia rimasto ben impresso nella mente di Frank, sebbene sia segnato inevitabilmente dalla malattia in evoluzione.
Conclusioni
Non sappiamo se il robot diventerà davvero solidale o se sarà soltanto la nostra immaginazione e la nostra capacità di ‘percepire’ la loro vicinanza e partecipazione alla nostra vita a farceli vedere così. Tuttavia, la sensazione è che ciò che il cinema anticipa si possa effettivamente avverare. Nel 2021, verrà prodotto il primo film avente un’attrice robotica, segno che la coabitazione e la relazione uomo-macchina è destinata a subire un continuo cambiamento, nella direzione di una sempre maggiore con-fusione empatica e di un rapporto vicendevole che diventerà, per forza di cose, sempre più significativo per entrambi gli agenti coinvolti.
Video: il social robot ARI – Pal Robotics
Note
- Aymerich-Franch, L. & Ferrer, I. (2020); Aymerich-Franch (2020). ↑
- Dumouchel e Damiano, 2019; Richardson, 2015. ↑
- Telotte, 1999. ↑
Cenni bibliografici
Aymerich-Franch L., Ferrer I. (2020). The implementation of social robots during the COVID-19 pandemic. ArXiv:2007.03941 (Pre-print).
Aymerich-Franch L. (2020). Why it is time to stop ostracizing social robots. Nature Machine Intelligence.
Dumouchel P., Damiano L. (2019). Vivere con i robot. Saggio sull’empatia artificiale. Milano: Cortina
Richardson K. (2015). An Anthropology of Robots and AI: Annihilation, Anxiety and Machines. New York: Taylor&Francis.
Telotte J.P. (1999). A Distance Technology: science fiction film and the machine age. Hanover: Wesleyan University Press.