L’etica non è un capriccio intellettuale, è una bussola che non può più essere ignorata da chi vuole contribuire alla creazione di un nuovo ecosistema sociale e lavorativo per rispondere alle sfide del nostro secolo. Le tecnologie emergenti e l’intelligenza artificiale stanno introducendo dinamiche nuove in molti settori, la percezione è che sulla scia dell’entusiasmo si stia rinunciando a un approccio responsabile a cui dovrebbero essere tenuti tutti gli stakeholders coinvolti.
Manca una regia e una scala di valori cardine a cui fare riferimento per trasformare l’innovazione in un’occasione di progresso umano e non solo economico.
Molti Stati stanno introducendo proprie strategie per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, l’UE ad esempio si è posta l’obiettivo di promuovere un’AI ”made in Europe” etica, sicura e all’avanguardia; il legislatore europeo però è tremendamente in ritardo e la sua tendenza a iper-regolamentare sta soffocando sul nascere progetti brillanti di innovazione ponendo a rischio la competitività europea sulla scacchiera internazionale.
Gran parte delle imprese italiane guardano all’AI come a uno strumento da piegare alle proprie immediate finalità di ottimizzazione produttiva ma senza una pianificazione sistematica a lungo termine gli effetti collaterali non tarderanno a manifestarsi nel tessuto economico.
La concretezza dell’etica nella diffusione dell’intelligenza artificiale (AI)
Quando si parla di disruptive innovation ci si riferisce a quelle innovazioni capaci di cambiare lo status quo di un mercato o di un modello consolidato di business, l’intelligenza artificiale rientra perfettamente in questa categoria.
Lo sviluppo tecnologico ci pone da sempre di fronte a quesiti etici ed è assolutamente inevitabile sia così se si tiene presente quanto l’innovazione sia volano di cambiamenti che introducono nella società nuove dinamiche in molti settori.
Solo di recente, però, si sta riconoscendo il peso specifico dell’etica nelle valutazioni di impatto delle tecnologie emergenti, le Big Tech stanno coinvolgendo crescentemente figure professionali provenienti dal mondo accademico internazionale per assumere scelte di business eticamente orientate. Questa scelta è mossa principalmente da due motivazioni:
- evitare di compiere errori che potrebbero minacciare la propria immagine e conseguentemente la propria crescita economica;
- spronare negli occhi degli utenti e dunque degli investitori la convinzione che dietro lo sviluppo dei servizi proposti sussista una presa di posizione etica.
Per quanto riguarda la prima motivazione è sufficiente fare un esempio per farci comprendere quali siano gli effetti collaterali di una scelta di business non eticamente orientata.
Il caso IBM
Non tutti sanno che IBM svolse un ruolo determinante nel censimento e nella deportazione degli ebrei nella Germania Nazista; la società statunitense, infatti, fornì le macchine e le schede perforate utilizzate per il trattamento automatico dei dati riguardanti l’Olocausto.
IBM dotò dunque i nazisti di quello che oggi si direbbe il know-how, sfidando le leggi statunitensi che dal 1941 in poi vietarono rapporti commerciali con il Reich e con le industrie ad esso collegate.
Thomas Watson, presidente di IBM, anche per questo suo contributo fu insignito della Croce dell’Aquila tedesca nel 1937, premio che poi restituì. Di questa vicenda si è occupato l’autore Edwin Black nel suo libro IBM and the Holocaust, edito nel 2001.
A seguito di questa tremenda macchia nera nella sua storia, l’IBM ha deciso di dotarsi di un comitato etico che vanta al suo interno filosofi accreditati presso le comunità accademiche internazionali.
Il caso Google
Per quanto riguarda la seconda motivazione per cui l’etica sta assumendo un ruolo strutturale nelle Big Tech, è sufficiente fare riferimento alle parole di Sundar Pichai, Ceo di Google e di Alphabet, al World Economic Forum di Davos del 2020.
Pichai ha dichiarato che la prossima rivoluzione conseguente allo sviluppo dell’intelligenza artificiale sarà «più importante del fuoco e dell’elettricità». Il manager indiano ha anche però sollevato il problema dei danni che possono derivare da una mancata regolamentazione del fenomeno, tra cui quello di un suo sviluppo non inclusivo: «il rischio maggiore è non sviluppare l’IA per avere un impatto positivo su miliardi di persone».
Sempre Google però ha licenziato Margaret Mitchell a capo del team di ricerca sull’etica e l’AI, la faccenda fa ancora discutere ma è evidente che l’obiettivo delle Big Tech sia quello di piegare l’etica ai progetti di Business e non il contrario. Chi si stupisce pecca di ingenuità perché il mercato statunitense alimenta le proprie radici nel liberismo più puro e l’etica è funzionale fintanto che non ostacoli la crescita delle proprie aziende.
L’etica come strumento di problematizzazione
Questo avvicinamento all’etica come strumento di problematizzazione e di pianificazione non solo aumenta la fiducia verso le nuove tecnologie ma aumenta anche le opportunità di business in un mercato sempre più attento al rispetto dei valori cardine della società.
Una visione sistematica e chiara delle caratteristiche che riteniamo irrinunciabili per la nostra società è fondamentale per evitare di ritornare sui propri passi e rallentare l’introduzione del progresso tecnologico.
Una dimensione etica in cui definire l’inevitabile progresso dell’intelligenza artificiale è fondamentale e da anni il professor Luciano Floridi ha avuto modo di dimostrarlo attraverso la pubblicazione di molte opere sul tema. È importante che lo studio dell’etica si lasci progressivamente alle spalle il suo ruolo definitorio della realtà già esistente per aprirsi ad un nuovo ruolo creativo ed anticipatore delle possibilità sempre meno future e sempre più concrete.
Ci si deve domandare ad esempio se sia eticamente accettabile per i soggetti privati applicare l’innovazione per esclusivi fini di profitto, scardinando il valore delle loro scelte dalle conseguenze che ne derivano.
Il mercato del lavoro e l’AI
L’intelligenza artificiale è entrata da anni nel mondo del lavoro ma le conseguenze del suo impatto sono ancora incerte.
Già dalla fase del recruiting del personale, l’AI inizia a svolgere un ruolo determinante. In passato l’ufficio Risorse Umane (HR) disponeva di strumenti gestionali in cui erano profilati i propri dipendenti o i candidati, questi dati dovevano poi essere consultati ed utilizzati per fare scelte ponderate. Attualmente il mercato offre già soluzioni di AI capaci di offrire elaborazioni e analisi di dati per ottimizzare la fase di screening dei profili ricevuti.
Le prestazioni dei dipendenti sono sempre più monitorate fornendo analisi precise sulla qualità quantitativa delle proprie attività e anche previsioni sulla loro attività futura. Sarebbe ingenuo pensare che prima dell’avvento di queste tecnologie non vi fosse un monitoraggio prestazionale dei dipendenti, ma ora i decision maker possono sfruttare strumenti scientificamente corazzati per assumere decisioni evidence-based.
Gran parte delle scelte aziendali possono potenzialmente essere assunte con un approccio basato sui dati (data driven).
La business intelligence (BI) si definisce come l’insieme dei metodi, dei sistemi e delle tecnologie che trasformano i dati in informazioni utili per le attività economiche di una azienda. Il termine venne introdotto nel 1958 dal ricercatore dell’IBM Hans Peter Luhn ma venne reso celebre da Howard Dresdner negli anni Ottanta.
La locuzione BI è utilizzata da studiosi e venditori di sistemi tecnologici che ne parlano come di un insieme di processi aziendali per raccogliere dati ed analizzare informazioni strategiche. La BI nasce con lo scopo di aiutare a prendere più velocemente le decisioni migliori per favorire un approccio razionale alla gestione aziendale.
Attualmente l’AI anima la BI sostituendosi ai decision maker e proponendo essa stessa decisioni strategiche nel breve, medio e lungo periodo attraverso le proprie capacità predittive intrinseche. Il ruolo dei manager sta notevolmente cambiando, alcuni manager ormai si limitano a convalidare le conclusioni a cui è giunta un’AI su cui ripongono crescente fiducia.
La crescita dell’automazione
In molte industrie alcune attività tradizionalmente affidate ai lavoratori stanno iniziando a essere svolte da sistemi di automazione animati dall’AI.
Il controllo qualità è da sempre affidato a lavoratori che si espongono a lunghe sessioni di verifica dell’assenza di difetti su prodotti semilavorati o finiti, è evidente che non abbia senso che simili attività spesso alienanti siano svolte da esseri umani quando possono essere svolte da macchine.
Un ulteriore esempio riguarda l’industria siderurgica dove gli operai lavorano in un contesto pericoloso esposti ad alte temperature e a fumi tossici, anche qui non si comprende perché simili attività debbano ancora essere svolte da umani quando si possono ottenere risultati migliori senza esporre nessuno ad alcun rischio.
Controllo qualità di bottiglie di vetro, foto tratta da: Gli uomini, il lavoro, la fabbrica – Niccolò Biddau (Stamperia Artistica Nazionale Editrice), 2005
In questo scenario in evoluzione, il concetto di ”lavoro” deve essere riformulato. Per esempio, il sociologo Neil Postman, che ha studiato i cambiamenti del linguaggio che si verificano a causa delle modifiche introdotte da ogni nuova tecnologia, sostiene che oggi il ”lavoro” ha certamente un significato diverso rispetto al passato.
È noto che l’introduzione delle nuove tecnologie è interpretata da alcuni come una minaccia per il lavoro; questo fenomeno è stato di recente soprannominato ”neo-luddismo” ed esprime un senso di rifiuto per le nuove tecnologie, percepite come una minaccia per il posto di lavoro.
Va evidenziato con forza che la minaccia non arriva mai dall’innovazione tecnologica ma dall’approccio di molti stakeholder che vedono nell’innovazione uno strumento idoneo ad abbattere i costi di produzione e di conseguire la massima ottimizzazione delle risorse.
È naturale che gli imprenditori puntino al profitto in un mercato sempre più concorrenziale, ma l’assenza di una strategia eticamente orientata e strutturale genererà presto degli effetti collaterali nel tessuto economico.
L’AI sta sottraendo posti di lavoro? Sì, è innegabile. I fondi nazionali ed europei che promuovono l’introduzione dell’AI per raggiungere l’ottimizzazione produttiva stanno prendendo atto di questo fenomeno? No.
È evidente che se i fondi fossero vincolati non solo all’introduzione dell’AI ma anche all’investimento del conseguente surplus sul reskilling dei dipendenti, si inizierebbe a creare un circolo virtuoso nel medio e lungo termine.
AI e etica, quesiti in continua evoluzione
L’intelligenza artificiale si nutre di dati, la risorsa inesauribile della nuova economia digitale; a queste immense potenzialità è necessario che corrispondano altrettante responsabilità da parte di tutti i soggetti coinvolti non solo per evitare di cadere in errori già commessi ma, soprattutto, per sfruttare tutte le opportunità che si presentano per rispondere alle sfide del nostro secolo e per creare una società che possa godere dell’innovazione senza percepirla come una minaccia.
Questa illustrazione del 1951 aveva l’ambizione di separare e riassumere i compiti svolti in maniera ottimale dagli uomini da quelli eseguiti dalle macchine. L’approccio è riassumibile in questo acronimo HABA-MABA (Humans are better at/Machines are better at).
Fonte: National Academy of Sciences, National Academies Press, Washington, D.C., 1951
Questi quesiti dinamici ci accompagneranno sempre e le risposte devono essere inevitabilmente aggiornate al progresso tecnico-scientifico con cui ci confrontiamo ogni giorno.
Come sostengono Baumer e Silberman: ”Essere scettici nei confronti della tecnologia non significa rifiutarla”, ma ”l’argomento qui è che quando introduciamo nuove tecnologie, dovremmo impegnarci in un dialogo critico e riflessivo sul loro utilizzo”.
Nel 2019 Gerd Leonhard introdusse il neologismo ”androritmo” per indicare tutto ciò che non può essere convertito in algoritmi, ovvero le attività in cui l’umanità ha un valore unico e insostituibile.
Conclusioni
Dovremmo prendere coscienza del fatto che, proprio perché fortunatamente le macchine risponderanno alla maggior parte delle esigenze produttive dell’uomo, l’umanità dovrà ripensare il proprio ruolo e forse anche capire che senza il consumo e i bisogni umani, la produzione non ha senso di esistere.
Le risorse umane sono il bene più prezioso in ogni contesto lavorativo e possono essere valorizzate attraverso il loro impiego in attività più soddisfacenti per i lavoratori e più strategiche per le aziende. L’intelligenza artificiale è un’opportunità che va colta nella sua interezza ma non bisogna trascurare il perché del suo utilizzo e le finalità che vogliamo raggiungere per rispondere a tutte le sfide del nostro secolo.
Non devono essere alimentate previsioni distopiche del futuro ma deve essere pianificata una messa a terra delle nuove tecnologie attraverso un’analisi complessa di tutti i fattori e i soggetti coinvolti.