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Copyright sotto attacco: la battaglia globale tra AI, creatività e deregolamentazione



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OpenAI spinge per una deregolamentazione del copyright negli USA, scatenando la reazione compatta dell’industria creativa globale. Tra pressioni geopolitiche, interessi delle Big Tech e proteste artistiche simboliche, si ridefinisce il futuro della proprietà intellettuale nell’era dell’intelligenza artificiale generativa, tra nuove sfide per autori e legislatori

Pubblicato il 11 apr 2025

Alfredo Esposito

Avvocato esperto in diritto delle nuove tecnologie e dell'intelligenza artificiale



copyright AI

Nelle ultime settimane, il panorama normativo dell’intelligenza artificiale generativa ha registrato un’intensificazione senza precedenti delle pressioni deregolative in materia di diritto d’autore. OpenAI, sotto la direzione di Sam Altman, ha formalmente presentato all’amministrazione Trump un documento programmatico di quindici pagine contenente istanze di significativa portata deregolamentare, ricevendo da parte di oltre 400 personalità dell’industria creativa, tra cui Paul McCartney, Ben Stiller, Cate Blanchett e Guillermo del Toro, una posizione coordinata che ha fatto ricordare la risposta compatta di Hollywood durante gli scioperi del 2023, quando sceneggiatori e attori hanno paralizzato l’industria per mesi proprio in difesa dei diritti d’autore messi in discussione dall’avvento dell’intelligenza artificiale.

La proposta di OpenAI

La proposta di OpenAI si articola su direttrici di particolare rilevanza: l’invocazione della preemption (cioè della supremazia legislativa) federale rispetto alle normative statali in materia di intelligenza artificiale, con conseguente invalidazione preventiva di eventuali disposizioni più restrittive adottate a livello sub-federale, insieme alla formulazione di una “strategia sul copyright che promuova la libertà di apprendimento”, con implicita richiesta di ampliamento dell’ambito applicativo della dottrina del fair use e la legittimazione ex ante dell’utilizzo di materiale protetto da diritto d’autore per finalità di addestramento degli algoritmi di machine learning.

Altresì significativa è stata la richiesta di accesso privilegiato ai dataset governativi per lo sviluppo dei propri sistemi, premettendo la necessità, sempre più sentita nell’America trumpiana, di una prevalenza generalizzata degli interessi di sicurezza nazionale.

OpenAI ha esplicitamente invocato la competizione con la Cina quale giustificazione primaria per tale deregolamentazione, sostenendo che se gli sviluppatori cinesi hanno accesso illimitato ai dati e le aziende americane sono private dell’accesso sotto il fair use, la “gara per l’AI” è di fatto già conclusa.

Il posizionamento di OpenAI è decisamente peculiare: mentre l’azienda invoca libertà di utilizzo di contenuti protetti per le imprese statunitensi, ha contestualmente adottato una posizione diametralmente opposta nei confronti della concorrente cinese DeepSeek, denunciando le prassi operative come lesive del copyright legato ai modelli di ChatGPT.

Tale contraddizione operativa evidenzia il rischio, sempre più evidente, che il dibattito sull’enforcement della proprietà intellettuale possa degenerare in mero strumento di competizione commerciale internazionale, piuttosto che configurarsi quale meccanismo di equa remunerazione dei creatori di contenuti.

La reazione dell’industria creativa

La reazione dell’industria creativa, come anticipavamo, non si è fatta attendere, manifestandosi attraverso modalità di contestazione particolarmente significative. Le oltre 400 personalità del mondo dello spettacolo hanno sottoscritto una lettera aperta all’amministrazione Trump, esortandola a non ridurre le protezioni del copyright. Il documento ha provato ad evidenziare un concetto semplice: i firmatari sostengono che la leadership globale americana nell’ambito dell’AI non dovrebbe avvenire a spese delle essenziali industrie creative, sottolineando il contributo economico del settore che garantisce “oltre 2,3 milioni di posti di lavoro con giri remunerativi superiori a 229 miliardi di dollari annui”.

Dopo l’ultimo lungo sciopero degli autori e degli attori di Hollywood, la preoccupazione che il settore imploda a livello globale è di nuovo, e a giusta ragione, molto sentita.

Nel contesto britannico, tra i primi a lavorare nell’ottica di una concezione libertaria delle modalità dei sistemi di data training, oltre 1.000 musicisti, tra cui Kate Bush e Cat Stevens, hanno pubblicato un “album silenzioso” intitolato “Is This What We Want?“, composto da registrazioni di studi e spazi performativi vuoti, quale forma di protesta simbolica contro le proposte di riforma. I 12 brani dell’album, combinati, formano la frase “The British government must not legalise music theft to benefit AI companies” (Il governo britannico non deve legalizzare il furto di musica a beneficio delle aziende di AI).

Un azione velleitaria che ha però trovato riscontro istituzionale nella Camera dei Lord, che ha recentemente votato a favore di emendamenti al disegno di legge che sottoporrebbero le aziende di AI alle leggi sul copyright del Regno Unito, rafforzando – o meglio non indebolendo – le protezioni per i titolari di diritti e i creatori.

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AI Action Plan e posizione delle Big Tech

L’avvento dell’amministrazione Trump rappresenta per questo motivo un punto di svolta decisivo nell’evoluzione del quadro normativo relativo all’intelligenza artificiale. La nuova amministrazione ha manifestato, sin dal suo insediamento, un orientamento marcatamente deregolatorio, combinato con una retorica di primato tecnologico nazionale nella competizione globale, particolarmente nei confronti della Cina.

La politica dell’amministrazione Trump in materia di intelligenza artificiale si è concretizzata in una serie di atti normativi di significativa portata sistemica, che riassumiamo brevemente.
Il presidente Trump, successivamente al proprio insediamento, ha abrogato l’ordine esecutivo intitolato “Safe, Secure, and Trustworthy Development and Use of Artificial Intelligence” firmato dal predecessore Joe Biden nell’ottobre 2023, eliminando così le regole di safety testing per l’AO utilizzata dal governo federale e modificando strutturalmente l’approccio in materia.
Trump ha successivamente firmato un secondo ordine esecutivo, dichiarando che “è politica degli Stati Uniti sostenere e migliorare il dominio globale americano nell’AI” e sollecitando suggerimenti dall’industria per la creazione di un “AI Action Plan” da sottoporre al Presidente entro 180 giorni, a cui sono susseguite le proposte di gruppi quali OpenAI e Google.

Il vice presidente JD Vance ha assunto un ruolo di particolare rilievo nell’articolazione della visione dell’amministrazione, dichiarando, in un recente vertice con funzionari governativi e leader tecnologici che “dobbiamo approcciarci al futuro dell’IA con ottimismo e speranza”. In occasione di un summit sull’AI a Parigi, Vance ha ulteriormente esplicitato la posizione dell’amministrazione, invocando politiche “pro-crescita” e mettendo in guardia i leader mondiali contro una “regolamentazione eccessiva” che potrebbe “uccidere un’industria trasformativa proprio mentre sta decollando”.

Posizioni che ritroviamo a livello nazionale in Italia, ad esempio nelle dichiarazioni di Alec Ross, professore della Bologna Business School, che ha definito l’AI Act “una stupidaggine travolgente” e che da tempo attacca a spada tratta ogni regolamentazione europea in tema di AI.

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Dal diritto d’autore al compenso d’autore

Gli sviluppi recenti confermano la validità della tesi sulla progressiva transizione dal paradigma del “diritto d’autore” a quello del “compenso d’autore”. Le difficoltà intrinseche al tracciamento dell’utilizzo delle opere protette, l’incertezza giurisprudenziale sulla definizione di “human authorship” nelle opere generate con ausilio di AI e l’impossibilità pratica di un enforcement efficace su scala globale determinano un riorientamento sistemico verso meccanismi di licenza e remunerazione preventiva.

In questo scenario, appare evidente come i piccoli creatori di contenuti, privi di strutture associative consolidate e di efficaci strumenti di lobbying, si troveranno in una posizione di significativa vulnerabilità rispetto alle pressioni verso un’interpretazione estensiva della dottrina del fair use. L’assenza di una rappresentanza collettiva efficace rischia di condurre all’affermazione di un modello di remunerazione analogo a quello implementato da piattaforme come Spotify, caratterizzato da compensi irrisori distribuiti secondo metriche proprietarie e scarsamente trasparenti, ulteriormente aggravando la precarietà economica dei professionisti della creatività.

Il modello “Pay-or-data” evolve verso un approccio “Data-to-use“, in cui il valore delle creazioni intellettuali viene monetizzato ex ante attraverso accordi di licenza per l’addestramento dei modelli di AI, piuttosto che tutelato ex post mediante gli strumenti tradizionali del diritto d’autore.

La dicotomia tra innovazione tecnologica e tutela dei diritti degli autori si configura come la questione centrale nella ridefinizione del framework normativo della proprietà intellettuale nell’era dell’AI generativa. Da un lato, le esigenze di sviluppo tecnologico e competitività internazionale spingono verso un allentamento delle restrizioni; dall’altro, la sostenibilità economica dell’ecosistema creativo richiede meccanismi di compensazione adeguati per i creatori di contenuti originali.

Conclusioni

La sfida impossibile per i legislatori e i policy-makers consisterà nel trovare un punto di equilibrio che consenta di preservare gli incentivi alla creazione intellettuale senza ostacolare lo sviluppo tecnologico, in un contesto in cui le categorie giuridiche tradizionali del diritto d’autore appaiono sempre più inadeguate a regolare la complessità del panorama digitale contemporaneo mentre le spinte delle big tech verso una deregolamentazione sistematica, sostenute da ingenti risorse lobbistiche e da una narrativa incentrata sulla competitività geopolitica, rischiano di compromettere definitivamente l’architettura normativa della proprietà intellettuale senza garantire adeguati meccanismi compensativi per i creatori di contenuti originali.

Assistiamo quindi non tanto alla scomparsa sic et simpliciter della tutela autoriale quanto alla sua profonda trasformazione paradigmatica, in un processo di adattamento evolutivo alle nuove modalità di creazione, fruizione e valorizzazione dei contenuti nell’ecosistema digitale contemporaneo che, partendo dagli Stati Uniti, rischia di travolgere inevitabilmente anche l’impianto normativo dell’Unione Europea.

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