Data-driven enterprise: sono ancora poche, ma si va verso l’Intelligent Data Processing

Il percorso verso la trasformazione in data-drive enterprise non è semplice e “obbliga” le aziende a vedere il dato non come elemento tecnico ma come pilastro strategico del business. Un passaggio che non può avvenire con la sola tecnologia, serve portare la cultura del dato a tutti i livelli aziendali. Ne abbiamo discusso con Luca Flecchia, Data Driven Innovation Practice Head di P4I – Partners4Innovation

Pubblicato il 01 Ott 2018

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Se è vero che la consapevolezza sul valore dei dati ai fini di business è enormemente cresciuta negli ultimi anni, anche nelle aziende di dimensioni più piccole, è altrettanto vero che parlare di data-driven enterprise è eccessivo se guardiamo alle aziende italiane. «Lo scoglio è prevalentemente culturale», è l’opinione di Luca Flecchia, Data Driven Innovation Practice Head di P4I – Partners4Innovation. «Nelle aziende ci sono persone molto competenti sul business ed i processi e spesso questa conoscenza, innegabile, lascia poco spazio ad un modello decisionale basato sui dati. Sembra un paradosso ma pur riconoscendo il valore del dato in sé, gli imprenditori si fidano ancora poco delle decisioni basate sui dati, preferiscono affidarsi al loro “intuito” e alle competenze acquisite in prima persona».

NON SIAMO ANCORA PRONTI ALLA DATA-DRIVEN ENTERPRISE

Luca Flecchia
Luca Flecchia, Data Driven Innovation Practice Head di P4I – Partners4Innovation

In questa “diffidenza” sembra esserci una errata percezione sul dato, «anziché essere visto come oggettivo strumento decisionale viene spesso percepito come strumento di controllo e quindi come elemento che può mettere in discussione i processi aziendali o le scelte di business fatte fino a quel momento in un’azienda», precisa Flecchia. «Bisognerebbe però superare questi scogli perché la questione non è giudicare cosa è stato fatto bene e cosa meno ma come innovare e distinguersi in mercati sempre più competitivi e globali, dove i confini dell’offerta e delle specializzazioni sono sempre più sfumati e contaminati da “mercati paralleli”, dove partner e clienti sono sempre più informati e consapevoli (a volte anche più di un brand stesso) e sempre più abituati all’utilizzo della tecnologia in qualsiasi contesto».

Il dato e la sua analisi, in altre parole, non sono da intendersi come un rimedio a qualcosa che si sta facendo male ma un pilastro su cui fondare un nuovo modello di business che consente di fare meglio anche qualcosa che sta già andando bene.

«Oggi le piccole e medie aziende sono ancora difficilmente classificabili come data-driven enterprise perché il processo decisionale avviene troppo spesso solo sulla base della “sensibilità” dell’imprenditore», aggiunge Flecchia. «Nel mondo delle large enterprise si è un po’ più vicini al concetto di data-driven enterprise perché la contrazione dei budget ha portato ormai come pratica comune anche per piccoli progetti alla definizione preliminare del business case e questo ha molto aiutato la logica data-driven».

Questo non significa che le medie aziende italiane stiano andando male, tutt’altro, «abbiamo imprenditori di altissima qualità e valore», è l’opinione di Flecchia, «se però guardiamo a queste aziende dal punto di vista della sostenibilità il rischio è che in assenza dell’imprenditore “illuminato” vengano esposte ad un mercato così competitivo da non consentire loro un futuro senza la figura di riferimento. Per avere un business sostenibile nel tempo è necessario slegare i processi decisionali dalle singole persone: questo non significa togliere il potere decisionale alle persone di business, significa raggiungere un modello replicabile e sostenibile anche se cambiano le persone di riferimento in azienda».

Competenze diffuse sull’analisi dei dati, cultura del dato, processi condivisi e framework metodologici non devono essere visti come sminuimento del singolo ma come un percorso di trasformazione che aiuta l’azienda ad essere più competitiva sul mercato e anche più redditizia.

COSA CARATTERIZZA LE DATA-DRIVEN ENTERPRISE

Le aziende più virtuose, quelle che aspirano a diventare (o già lo sono) delle data-driven enteprise, sono realtà che hanno già compiuto diversi passi verso l’utilizzo del dato non come elemento tecnico ma strategico, per esempio istituendo delle vere e proprie “data room”. «Si tratta di aziende che hanno portato la cultura dell’analisi del dato a più livelli aziendali – spiega Flecchia – quantomeno a livello di mid-management e all’interno di processi operativi».

La chiave di volta sta nel considerare il dato come elemento strategico: «la tecnologia è necessaria ma non si deve commettere l’errore di pensare che una volta fatti gli investimenti tecnologici su sistemi di analisi e data management – nonché soluzioni anche avanzate di data visualization – i processi decisionali da soli diventino più efficaci», è l’allerta che lancia Fleccia. «Per diventare davvero una data-driven enterprise servono competenze nuove e l’organizzazione deve evolvere: serve la lucidità di capire che la tecnologia è un abilitatore di business, non la panacea di tutti i problemi, è il passo di un percorso, non il traguardo».

VERSO L’INTELLIGENT DATA PROCESSING

Va poi chiarito che il concetto di data-driven enterprise è di per sé standardizzabile ma non può esserlo il percorso di come un’azienda ci può arrivare. «Su questo c’è stata troppa enfasi e confusione attorno, in un primo momento, al data lake e, successivamente, all’intelligenza artificiale: c’è stata una sorta di rincorsa a creare questi enormi repository di dati “sporchi”, provenienti da fonti e con formati eterogenei, pensando che buttandoci poi sopra uno strato di “intelligenza” si potessero creare in modo automatico avanzatissime analisi. Ma non è così, intelligent non è miraculous», dice provocatoriamente Flecchia.

Va però detto che tra le aziende di dimensioni più grandi, quelle che hanno già avviato un percorso verso la data-driven enterprise – seppur con diverse modalità, livelli di maturità differenti e velocità variabili – l’Intelligent Data Processing è l’area dove la maggior parte delle aziende italiane sta investendo (secondo i dati dell’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano), anche alla luce dei recenti cambiamenti normativi: «il GDPR e altri regolamenti che inseriscono il diritto degli utenti di essere cancellati da un servizio implica per l’impresa la capacità di eliminare quei dati da tutti i database aziendali (processo non affatto semplice in una grande impresa) e di capire che correlazioni ci sono tra un database ed un altro, che tipo di servizi ci sono “agganciati” e via discorrendo», spiega a titolo di esempio Flecchia. «In quest’ottica il data lake a mio avviso ha senso se c’è stato a monte un lavoro minuzioso sulla pulizia e la normalizzazione dei dati; l’analisi intelligente dei dati e la loro correlazione attraverso soluzioni di Intelligent Data Processing o Machine Learning risulta tale se i dati sono validi: dati non corretti o incompleti non possono produrre un risultato corretto o completo. Il data lake dovrebbe essere visto come la nuova abitazione dove portare i dati ma lo spostamento dev’essere visto come un trasloco, cioè un’occasione per “fare pulizia”».

Il primo step dell’Intelligent Data Processing potrebbe proprio essere quello di analisi sui dati aziendali per verificare repliche o inesattezze e aumentarne la qualità, prima ancora che in chiave AI (Artificial Intelligence). «Non bisogna però pensare di poter demandare la governance dei dati ad un sistema di Machine Learning», è il monito di Flecchia. «Se questo valeva per la Business Intelligence e poi per i Big Data Analytics deve valere anche per l’Intelligenza Artificiale».

«Sul fronte AI vedremo certamente muoversi prima di altre aziende che hanno già fatto diversi passi verso la data-driven enterprise, in particolare quelle che sono riuscite a portare gli Advanced Analytics (soprattutto le analisi predittive) a livello di business», dice in chiusura Flecchia. «Io credo che ci sia del vantaggio nel muoversi prima degli altri, non tanto nella capacità innovativa iniziale (certamente importantissima) ma nella conoscenza che si può acquisire, quella conoscenza alla base della quale ci sono processi decisionali più efficaci e che quindi generano valore per l’azienda e il mercato in cui opera».

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PARLEREMO DI QUESTI TEMI, PROPRIO INSIEME A LUCA FLECCHIA, NELLA SESSIONE VERTICALE DEDICATA ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE DEL TECH COMPANIES LAB, L’EVENTO DEDICATO AL NUOVO CANALE ICT ITALIANO IN PROGRAMMA A MILANO IL PROSSIMO NOVEMBRE (22 NOVEMBRE SPAZIO MIL – MILANO)

Tech Companies Lab 2018

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