Deep learning, perché potrebbe essere alla fine

La provocazione arriva dalla MIT Technology Review. Da un’approfondita analisi sui passati 25 anni di ricerca nell’ambito dell’intelligenza artificiale pare che si stia avvicinando la fine dell’era del deep learning.

Pubblicato il 29 Gen 2019

Deep Learning, cos’è l’apprendimento profondo, come funziona e quali sono i casi di applicazione

Il deep learning (apprendimento profondo) sta morendo?

Cominciamo dicendo che si è dimostrato abbastanza potente negli ultimi anni, soprattutto in abilità tipiche umane come la visione e l’ascolto e nel riconoscimento di schemi all’interno di enormi moli di dati (in questo caso superando le capacità umane). Come consumatori ci possiamo rendere conto di quanto il deep learning abbia inciso sulle nostre abitudini pensando a Facebook (il feed delle notizie è gestito con queste soluzioni), Google (il motore di ricerca è sempre più potente e preciso nella restituzione delle risposte a ciò che cercano gli utenti), Netflix (il motore di suggerimenti sfrutta sia machine learning sia deep learning)…

Perché mai dovremmo quindi spingerci a dire che il deep learning potrebbe essere alla fine della sua era?

La provocazione arriva da Karen Hao, reporter sui temi dell’intelligenza artificiale della rivista MIT Technology Review, che in un servizio di qualche giorno fa ha illustrato alcune interessanti evidenze emerse dall’analisi di 16.625 articoli scientifici – specifici sull’AI/Artificial Intelligence – pubblicati dai ricercatori negli ultimi 25 anni (dal 1993 a Novembre 2018).

I giornalisti della nota rivista legata al MIT di Boston hanno consultato arXiv, uno dei più grandi database open source di articoli scientifici (ma non l’unico), e analizzato oltre 16mila abstarct di documenti disponibili nella sezione AI fino al 18 novembre 2018 con l’obiettivo di verificare come si è evoluto il segmento di ricerca negli anni.

Quello che di interessante è emerso è strettamente legato all’evoluzione del machine learning (apprendimento automatico) che ha avuto il suo massimo livello di attenzione da parte dei ricercatori tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, decretando, da un lato, la fine dell’interesse della comunità scientifica verso i sistemi basati sulla conoscenza (sistemi esperti), dall’altro il “successo” del deep learning a partire dal 2010 (dato che il machine learning rappresenta di fatto la categoria principale di algoritmi che include l’apprendimento approfondito, ossia il deep learning).

Soffermandosi sulla linea temporale lungo il quale si è evoluta la ricerca scientifica, appare evidente che l’interesse verso il deep learning non è stato immediato, sono passati ben 10 dalla “maturità” (attenzione, intesa come produzione di articoli scientifici da parte dei ricercatori, non come sviluppo tecnologico) del machine learning prima che l’apprendimento profondo guadagnasse il suo “posto in prima fila” nella comunità scientifica. Lasso di tempo nel quale – scrive la reporter Karen Hao – i ricercatori hanno testato una varietà di metodi oltre alle reti neurali (che rappresentano il meccanismo centrale dell’apprendimento profondo) tra i quali le reti bayesiane, le macchine a vettori di supporto e gli algoritmi evolutivi, ognuno dei quali sfrutta approcci diversi per trovare modelli e schemi nei dati.

La vera svolta si è verificata in una data precisa, il 2012, anno in cui Geoffrey Hinton (psicologo cognitivo e informatico canadese, noto soprattutto per il suo lavoro sulle reti neurali artificiali e indicato da molti ricercatori come il “Padrino del deep learning”), insieme ai suoi colleghi dell’Università di Toronto, ha rivoluzionato il campo della visione artificiale (computer vision e riconoscimento immagini) a seguito di un contest competitivo – il concorso annuale di ImageNet – nel quale hanno dimostrato come ottenere la migliore accuratezza nel riconoscimento di immagini sfruttando il deep learning.

Comprensibile dunque che gli ultimi anni abbiano visto un boom di pubblicazioni scientifiche sull’apprendimento profondo.

Tornando al nostro quesito iniziale, allora, perché dovremmo assumere la fine dell’interesse verso il deep learning?

Pedro Domingos, professore di informatica presso l’Università di Washington (autore di The Master Algorithm) ha dato la sua risposta alla reporter della MIT Technology Review spiegando che ogni decennio la ricerca “cambia rotta”: le reti neurali hanno avuto il loro boom di interesse alla fine degli anni ’50 e negli ’60, gli anni ’70 hanno visto gli scienziati concentrarsi su vari approcci cosiddetti simbolici, i sistemi basati sulla conoscenza hanno dominato negli anni ’80, le reti bayesiane negli anni ’90, nei primi anni 2000 sono tornate in voga le reti neurali… e poi è arrivato il tempo del deep learning. Tempo che, se dovessimo prendere per assodata la ciclicità decennale, starebbe volgendo al termine.

In realtà la risposta alla domanda “Il deep learning sta morendo?” non esiste. La verità è che i ricercatori stanno cercando, ormai dagli anni ’50, di replicare l’intelligenza umana. E nessuno ancora ci è riuscito!

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