L’intelligenza artificiale sta vivendo un momento di gloria. Tutti sembrano avere una vision, o una teoria, su cosa sia e quali applicazioni possa avere.
Tuttavia, scavando oltre la superficie, emerge un’immagine diversa. Secondo un sondaggio recentemente commissionato da VMware, addirittura il 45% dei consumatori pensa che l’intelligenza artificiale “sia un robot”. La percezione diffusa è che l’intelligenza artificiale sia una “cosa” piuttosto che un’intelligenza incorporata in molti servizi e sistemi che già utilizziamo.
Questa confusione è comprensibile se si considera che pochi di coloro che evangelizzano sulla tecnologia la stanno adottando in applicazioni reali e di valore. Tutto questo conduce alla domanda: quando parliamo di intelligenza artificiale, cosa intendiamo? Intendiamo un sistema che è veramente intelligente e può realizzare qualsiasi cosa la sua mente artificiale decida, o ci riferiamo a una funzione molto specifica, che il sistema esegue e poi migliora? Più semplicemente, stiamo parlando dell’intelligenza artificiale generale o dell’intelligenza basata su attività?
È questa confusione che non ci permette di trovare una soluzione alle ambiguità morali legate alle macchine senza conducente o che ci induce, per citare casi estremi, a vedere nei robot alimentati dall’AI dei potenziali terminator inarrestabili. Alex Champandard, co-fondatore di creative.AI, riassume il fenomeno spiegando che il concetto di intelligenza artificiale viene utilizzato per dare nome alle diverse paure che le persone provano in relazione all’innovazione tecnologica: «Alcuni individui temono che sarà utilizzata in guerra o che ruberà loro il posto di lavoro, ma fondamentalmente stanno solo proiettando tutte le loro preoccupazioni su un concetto astratto».
Il punto è che le persone sono preoccupate per il futuro in generale. Il mondo sta cambiando a un ritmo rapido e, comprensibilmente, tutti noi vorremmo sapere cosa ci aspetta. La colpa dell’AI risiede nel suo potenziale di rendere le paure legate alla guerra robotica e alla disoccupazione di massa, una realtà.
Le aziende dovrebbero tenerne conto per due motivi. In primo luogo, la ricerca di VMware mostra che più della metà dei consumatori si rivolge specificamente alle aziende perché li aiutino a capire cosa possano effettivamente compiere tecnologie rivoluzionarie come l’AI. In secondo luogo, le possibili applicazioni, considerando l’intelligenza artificiale basata sulle attività piuttosto che l’AI generale più ampia, sono troppo grandi perché le aziende possano permettersi di ignorarle. L’opportunità sta nel bilanciare la ricerca di profitto con le preoccupazioni naturali che sorgono dall’utilizzo dell’AI.
Aumentare la capacità di business
Facciamo un passo indietro: la portata dei miglioramenti che la tecnologia ha permesso di realizzare, che sta creando e che continuerà a portare alle imprese in futuro è enorme. Il problema è che, con l’espansione del cloud, delle applicazioni e dell’infrastruttura, che diventano sempre più sofisticati, è richiesto qualcosa che le gestisca sempre in modo efficace ed efficiente. In altre parole, come possiamo gestire un panorama tecnologico sempre più complesso su vasta scala?
La forza lavoro umana è intelligente, ma ha dei limiti. I nostri sistemi sono diventati troppo complessi per le nostre menti, e forse alcuni dei lavori sono troppo “standardizzati”, ed è qui che entra in gioco l’AI, con il machine learning. Nel Regno Unito, ad esempio, la National Grid utilizza i droni per ispezionare le sue 7.200 miglia di linee elettriche e sta applicando il machine learning per ridurre i filmati grezzi che l’essere umano deve effettivamente visionare.
L’ottimizzazione dei processi potrebbe non sembrare entusiasmante quanto i robot alimentati dall’intelligenza artificiale o gli esploratori galattici autonomi, ma è l’inizio di un’autentica rivoluzione aziendale. Per le imprese, il processo è triplice.
In primo luogo, lo “stato attuale”. Gli individui ricevono rapporti sul funzionamento dei propri sistemi – dalle prestazioni dei diversi ambienti cloud, all’ottimizzazione del data center o persino alla qualità dei dati in un sistema CRM – e si basano su questi per prendere decisioni di business.
La seconda fase è lo “stato desiderato”. Gli individui decidono come dovrebbe apparire il sistema e implementano i macchinari necessari affinché questo si realizzi. Questo è il momento in cui il sistema viene programmato per imparare come fare qualcosa, noto anche come machine learning. Le applicazioni che soddisfano determinati criteri vengono automaticamente riposizionate nell’ambiente più adatto a soddisfare le loro esigenze, i data center vengono implementati in base all’aumento o alla diminuzione delle richieste di risorse, i dati vengono automaticamente ripuliti non appena entrano nel CRM.
Il punto finale è lo “stato futuro”, in cui entra in gioco l’intelligenza artificiale. Basandosi sull’attività del machine learning, essa comprende come il sistema dovrebbe essere configurato per fornire i massimi risultati, potenzialmente in modi a cui gli esseri umani non hanno pensato. È nello stato futuro in cui le cose iniziano a diventare davvero interessanti: crescendo e migliorando, senza un input umano costante.
Eppure dobbiamo arrivarci. Come si è chiesta di recente la futurist e imprenditrice britannica Sophie Hackford, siamo troppo stupidi per essere in grado di programmare correttamente l’intelligenza artificiale?
Rispettare le linee guida per raggiungere il successo
Sophie si riferiva all’AI su larga scala, a un’AI generalista, e a come potremmo essere troppo in conflitto per essere in grado di risolvere alcuni dei grandi problemi che affrontiamo come una gara, come il cambiamento climatico, la gestione delle epidemie o la sicurezza alimentare. Eppure è una nozione da considerare anche a livello di business. Abbiamo le capacità per offrire un’innovazione veramente radicale, guidata dall’AI? In sostanza, siamo in grado di raggiungere quello stato futuro?
Forse. Ecco un’altra considerazione: è questa la domanda a cui dobbiamo rispondere ora? Abbiamo già discusso della confusione sull’AI, legata al fatto che le persone sostengono possibilità teoriche, senza collegarle alla realtà. Eppure molte di queste possibilità si stanno già realizzando. Abbiamo già raggiunto la fase due del processo.
Gmail, ad esempio, utilizza il machine learning per limitare lo spam; Uber incorpora la tecnologia per stimare l’ETA (estimated time of arrival) e i tempi di consegna dei prodotti alimentari; le chatbot in qualsiasi forma di supporto online sono alimentati dall’AI; e questi sono solo alcuni esempi in cui i consumatori potrebbero interagire con l’intelligenza artificiale. Nei data center, Google è stata in grado di utilizzare l’intelligenza artificiale per ridurre le bollette energetiche del 40%. La Bank of America utilizza l’AI nella propria assistente virtuale intelligente chiamata Erica, progettata per eseguire transazioni quotidiane per i clienti e per anticipare le esigenze finanziarie individuali fornendo raccomandazioni intelligenti.
In tutti questi casi, l’intelligenza artificiale è stata sviluppata per soddisfare una serie specifica di criteri, ed è per questo che le implementazioni hanno avuto successo. Come quando si insegna a un bambino a distinguere giusto e sbagliato, l’AI ha bisogno di parametri che devono essere programmati dagli umani.
L’altra questione da considerare è che l’intelligenza artificiale è in definitiva uno strumento di business, non una strategia. L’attenzione deve essere concentrata su quale sia il problema aziendale sottostante, e quindi, se appropriato, capire come integrare l’intelligenza artificiale, proprio come qualsiasi altra tecnologia aziendale, che si tratti di cloud, blockchain, virtualizzazione o lavoro mobile.
Speedy Hire, una società di noleggio di utensili nel Regno Unito, ha recentemente annunciato un miglioramento dei propri risultati finanziari legato a una rinnovata attenzione per le piccole e medie imprese, promettendo consegne per il giorno successivo su prodotti selezionati e consegne in quattro ore all’interno di una determinata area geografica. Ha potuto farlo solo conoscendo i desideri dei clienti e avendo il giusto stock nel giusto deposito e questo è stato possibile grazie all’implementazione di dati, intelligenza artificiale e machine learning, che ha consentito di indirizzare le proprie risorse laddove erano necessarie, insieme alle offerte di marketing per i nuovi clienti.
La strategia consisteva nel rivolgersi alle PMI con servizi che potessero attrarre i clienti, come la consegna più rapida. L’AI è stata semplicemente uno degli strumenti ad aiutare l’azienda a sviluppare le soluzioni per essere in grado di offrire quei servizi. Questo non vuol dire che non fosse importante: senza di essa, essere in grado di capire cosa volessero i clienti e quando, sarebbe stato molto più difficile. Eppure non rappresentava la strategia in sé.
Insegna all’AI come fosse un bambino; non temerla come fosse una minaccia
La conversazione sull’intelligenza artificiale deve cambiare, allontanandosi dai concetti oltre la nostra comprensione e iniziando a radicarsi in azioni che possano avere un impatto tangibile. L’AI ha un potenziale reale per aumentare gli affari, se gestita correttamente.
In definitiva, è sì importante essere consapevoli delle paure sull’intelligenza artificiale e da dove provengono, ma osservare gli estremi non è di aiuto, sia che si tratti del concetto positivo di un’AI serva di tutti, sia di quello negativo in cui sarà lei a renderci schiavi. Proprio come gli umani, l’intelligenza artificiale ha dei limiti, ed è qui che entriamo in gioco noi. L’intelligenza artificiale è come un bambino, ha bisogno di linee guida; il nostro ruolo è quello di capire cosa vogliono ottenere le aziende e come l’AI possa essere d’aiuto.
Senza queste linee guida, l’intelligenza artificiale è solo un’altra tecnologia che rischia di perdersi nel suo stesso clamore. Con le giuste indicazioni, tuttavia, può essere un nuovo potente elemento per sostenere il successo aziendale.