L’AI Act è percepito secondo tonalità emotive molto differenti. Alcune di queste tonalità esistono dentro persone che ritengono che le innovazioni tecnologiche potenzialmente dirompenti necessitino di regole a garanzia dei diritti fondamentali delle persone.
Il positivismo di un mondo migliore illuminato dalla tecnologia non seduce più queste persone. La realtà odierna, piena di strumenti, automazione e comunicazione è notevole, ma spoglia del senso di sicurezza, di crescita e degli ampi scorci che il miglioramento richiede.
Solo le persone, evidentemente, hanno la capacità di migliorare la realtà umana, non certo oggetti, tecnologie o tantomeno imprese.
Come vengono percepite le regole
Un insieme di regole è quindi percepito come opportunità per evitare la reiterazione delle ombre che si sono allungate durante l’avvento di Internet commerciale: la raccolta massiccia e incontrollata di informazioni sulle persone, la costruzione di profili intorno a gusti e abitudini, la corsa agli “analytics” per accrescere la ricchezza di pochi individui, a capo di pochi colossi.
Nella parte complementare del cerchio di Itten esistono invece le persone che ritengono che la regolamentazione sia un danno, gettata su una strada pulita e scorrevole, per renderla artificiosamente scoscesa, disseminata di blocchi, con deviazioni incomprensibili e costellata da cartelli con prescrizioni difficili da rispettare.
La regolamentazione per queste persone è un’azione contraria al senso di futuro. In un settore nuovo, come l’AI, serve libertà di sperimentare, tempo da dedicare alla tecnica (e non ai registri e ai “bollini”) e poche responsabilità.
All’interno di questa forma mentale la regolamentazione è un liquido di colore nero che lentamente si diffonde dentro l’innovazione, avvizzendola.
Questa visione ha alcuni presupposti deboli.
Mai dimenticare il passato: la deregulation
In Europa esiste già un caso recente di deregulation a fronte di una grande rivoluzione in ambito IT. Si tratta della citata prima ondata commerciale di Internet, iniziata a fine degli anni Novanta.
Non vi era alcun tipo di regolamentazione IT in atto in Unione Europea e questo non ha promosso la nascita di alcuna azienda della dimensione e dell’impatto delle controparti di prima magnitudo americane come Google, Amazon, Meta, PayPal, Netflix e altre. I grandi nomi europei sono arrivati in buona parte alcuni anni più tardi.
La mancanza di regole non ha reso l’Europa più competitiva da un punto di vista imprenditoriale.
A parità di deregulation, gli Stati Uniti hanno agito con migliore impatto perché probabilmente hanno un contesto legislativo generale che aiuta la crescita imprenditoriale e attrae talenti. Vi sono università di alto livello e soprattutto grandi capitali. Il fallimento è inoltre percepito come una fase imprenditoriale e non come una stigmate.
La mancanza di regole In Europa ha piuttosto generato effetti collaterali a cui si è data poca importanza all’inizio: la raccolta dati, diventata dopo poco tempo un’operazione sistematica e colossale, senza alcun tipo di limite.
A pochi anni dalla rivoluzione Internet, l’Europa si è ritrovata con un grado di competitività minore in ambito tecnologico e senza tutele per i dati personali dei propri cittadini, divenuti nel frattempo la materia prima del business internazionale. Internet non era già più il propulsore dei profitti, i dati lo erano. Internet era divenuta la mera via di trasporto per gli algoritimi.
Il GDPR è in tale contesto una pietra miliare ed è difficile immaginarlo come un freno all’innovazione. È tra l’altro una regolamentazione a cui il mondo intero ha dato credito, stimolando iniziative simili in molti paesi e generando accordi bilaterali per la gestione dei trasferimenti dei dati.
La mancanza di regole avvantaggia la capacità di influenzare il mercato
Gli ambienti privi di regole avvantaggiano le aziende con maggiore capacità di influenzare il mercato, non l’innovazione in sé. Il temine “influenzare” è usato qui in una accezione “operativa” e non morale, significando, per esempio, che grandi concentrazioni, in questo caso estere, hanno la possibilità di fare significative acquisizioni nel vecchio continente cambiando gli equilibri, hanno maggiori abilità nel portare i propri prodotti nelle mani degli utenti, hanno migliore competenza nella gestione di dispute a livello nazione o internazionale e hanno capacità di trascendere i confini nazionali per posizionare il proprio business dove è più vantaggioso farlo.
Questa costituzione muscolare è molto lontana dalla forma fisica dei piccoli operatori, comprese le startup, seppur ricchi di idee innovative e trasformative.
Il settore dell’alta tecnologia europea non sembra quindi soffocata dalle regole ma piuttosto dalla stazza dei contendenti esteri e dalle loro ottime capacità di esecuzione.
I player americani sono decisamente “immensi”: sono veloci, sanno realizzare strategie complesse nel tempo e sono in grado di immettere prodotti a una velocità difficile da pareggiare. Gli americani sono inoltre capaci di portare innovazione e ricchezza operando in settori molto regolamentati. È il caso per esempio di SpaceX, perfettamente in grado di apportate cambiamenti dirompenti nonostante il complesso quadro di regole del settore aerospaziale Usa.
Non bisogna poi stare tutto il tempo a guardare verso un lato solo del cielo. Ci sono altri concorrenti esterni, dall’altra parte del globo, che prosperano “a logica inversa”. Non intendono cioè inserirsi nella competizione internazionale diretta ma preferiscono servire il proprio immenso mercato interno, lasciando poco spazio agli operatori americani o europei. È il caso, per esempio, dei mercati cinesi o russi, dove esistono prodotti alternativi locali di qualità per le varie esigenze digitali, realizzati da colossi come Alibaba e Yandex.
Il quadro risultante è che l’Europa non riesce a cogliere il potenziale immenso delle ondate tecnologiche, nonostante l’assenza iniziale di normative particolari nel settore.
Considerare l’AI Act un freno all’innovazione è pericoloso
È importante non ripetere gli stessi errori nel nuovo ambito dell’AI. La visione semplicistica che l’AI Act sia il freno all’innovazione è pericolosa in quanto distoglie l’attenzione dai problemi impattanti quali la difficoltà a fare imprenditoria, l’alta pressione fiscale e la difficoltà ad attirare talenti dall’estero per sopperire alle carenze interne. Vi sono poi aspetti da non sottovalutare, quali la quantità di lingue e culture differenti nel continente europeo. Non si tratta di limiti, in realtà sono punti di forza, ma è un grado di difficoltà ulteriore da gestire se si intende produrre impatto a livello continentale.
I problemi devono essere affrontati e superati. Si potrebbe sfruttare l’AI Act come opportunità per produrre fiducia negli utilizzatori, anche quelli indiretti che si troveranno a usare le soluzioni di intelligenza artificiale portate in azienda da decisori terzi.
La fiducia non è un dettaglio di poco conto in una fase dove le persone hanno paura di subire l’AI in qualità di utenti e di patire conseguenze occupazionali nel proprio ambiente lavorativo.
È bene puntualizzare anche il perimetro di AI Act. Le prescrizioni sono veicolate principalmente nelle applicazioni ad alto rischio come il credit risk, il social score, l’uso in infrastrutture critiche o nei trasporti, la gestione del personale, ecc. Campi in cui vi sono già regolamentazioni in ragione della loro criticità e dove già si cerca di tutelare la sicurezza personale e l’abuso delle informazioni.
Le applicazioni AI a medio e basso rischio avranno invece un insieme molto limitato di vincoli da rispettare.
Concorrenti (apparentemente) senza regole
Gli Stati Uniti non hanno un codice unico sull’AI. Questo non significa che il paese sia privo di regole. Vi sono regolamentazioni settoriali e ci sono agenzie nazionali come la Federal Trade Commission (FTC) che vigilano il mercato interno a tutela dei consumatori. Vi è una iniziativa nazionale come il National AI Initiative Act con linee guide etiche, lo stimolo a pratiche industriali responsabili ma anche misure di promozione del settore. La White House AI Bill of Rights sono invece linee guida, non vincolanti, sulla protezione dalla discriminazione algoritmica, la privacy, la spiegabilità e la facoltà di contestare decisioni automatiche. Vi sono poi le iniziative di singoli stati. Non è da escludere una normativa nazionale nel prossimo futuro.
Anche la Cina ha approvato diverse normative in ambito AI per la protezione della privacy, la gestione di dati biometrici e la videosorveglianza. Ci sono inoltre regole di settore a tutela dei cittadini. Si ipotizza che possa essere varato in un futuro prossimo un codice onnicomprensivo.
Gli Stati Uniti e la Cina non stanno però solo normando. Stanno investendo notevolmente nel settore per essere stelle di prima magnitudo. La voglia di primeggiare è forse una carenza del Vecchio Continente.
Occorre mettere a fuoco il reale problema
Non è quindi la presenza di un codice strutturato a rallentare lo sviluppo, ma la carenza di vari elementi in grado di stimolare i settori nuovi, come l’assenza di coordinamento virtuoso tra enti governativi e industria, l’assenza di investimenti pubblici consistenti per la promozione di imprese interessanti, la mancanza di poli d’eccellenza per la tecnologia e la scarsa tutela dei gioielli nazionali ed europei. Si potrebbero in tal caso portare vari esempi di realtà tech italiane ed europee diventate di proprietà di colossi di altri paesi. Più limitati i casi opposti.
Questi aspetti sono invece ben compresi negli Stati Uniti, dove si è operato con competenza diverse volte, catturando le onde virtuose di ogni settore come la nascita commerciale di Internet, la prima rivoluzione informatica, lo sviluppo spaziale, la diffusione dei trasporti aerei commerciali, la nascita del settore automobilistico e molti altri esempi.
In assenza di strategie europee strutturate si assisterà probabilmente a un fenomeno di acquisizioni di aziende locali molto promettenti da parte di colossi multinazionali esterni, disperdendo il potenziale del continente.
L’accesso alla materia prima: le informazioni
La materia prima del nascente settore dell’AI è l’informazione, strutturata o grezza che sia. L’Europa dispone di enormi giacimenti di questa materia prima, generata giorno dopo giorno, dai suoi 450 milioni di abitanti.
Sarebbe importante valorizzare questi giacimenti per forgiare prodotti e servizi europei di qualità.
Bisogna certamente puntare il dito, ma verso i problemi concreti. Altrimenti si rischia che siano gli altri blocchi a estrarre ricchezza dalle miniere di informazioni europee, costruendo prodotti trasformativi. Prodotti che, tra l’altro, rispetteranno il framework normativo di AI Act, dimostrando che le regole non sono un limite al successo.
Per ulteriori approfondimenti
AI Watch: Global regulatory tracker – United States