“Ci sarà un’App al posto mio?”. Questo è il provocatorio titolo di un interessante articolo apparso il 29 aprile dello scorso anno sulla rivista QS (Quotidiano Sanità). L’articolo affronta (anche) gli aspetti etici e i precari equilibri di etica nell’ambito delle nuove tecnologie riguardo la diagnosi clinica e la telemedicina.
L’articolo è in realtà incentrato su una vicenda di cronaca avvenuta nell’ospedale di Freemont, una cittadina della Contea di Alameda, in California, a suo tempo ripresa da numerose testate giornalistiche e televisive. Essendo scemata, dopo dieci mesi, la tensione dovuta alla forte contrapposizione riguardo il “dilemma etico” che tale vicenda a suo tempo generò, ritengo che oggi, una serena rivisitazione di quegli eventi e una altrettanto serena disamina delle posizioni che allora si contrapposero al riguardo, possano costituire un altro importante spunto di riflessione nel dibattito sulla profonda mutazione nel rapporto contemporaneo fra uomo e macchina, in questo caso nell’ambito della telemedicina.
Il caso Freemont: etica e tecnologia
Ospedale di Freemont, città della Contea di Alameda, California US, 3 marzo 2019. Ernst Quintana, 79 anni, è ricoverato e assistito dalla nipote; entrambi vengono raggiunti in camera di degenza da un robot che li informa che il paziente sta morendo. Ernst Quintana, nelle ultime ore ha seguito un percorso ricorrente: è passato dal pronto soccorso ed è stato ricoverato presso il Kaiser Permanent Freement Medical Center.
L’uomo soffriva di una grave malattia polmonare cronica, era in gravi condizioni e la famiglia conosceva la situazione disperata. Si erano già stabiliti i turni tra i congiunti per non lasciarlo mai solo. La nipote, Annalisa Wilharm, era col nonno quando il “medico” li ha raggiunti per dare l’informazione, e ha registrato l’incontro.
Anziché un medico in carne e ossa si è presentato un robot e sul monitor della macchina, invece dei risultati delle analisi (come avveniva di consueto), è apparso il volto del medico che, via Skype, ha comunicato che Ernst stava morendo e non sarebbe più tornato a casa.
La nipote e i familiari, pur consapevoli della gravità della situazione erano convinti che sarebbe arrivato qualcuno in carne e ossa a comunicare la morte imminente del parente. Si aspettavano un “conforto” umano. La nipote, pur sapendo che il nonno stava morendo, si aspettava di poter contare sul conforto di un vero medico, di un essere umano. L’ospedale ha dichiarato che quello che è accaduto rientra nella nuova prassi, un nuovo modo di operare. Questa è la storia.
Etica e telemedicina: fino a che punto una macchina può sostituire un essere umano
Le domande che molto probabilmente a chiunque, vengono alla mente sono quelle che ruotano intorno al rapporto di origine remota tra umani nell’ambito dei riti di condivisione e passaggio di stato, con il loro reciproco riconoscimento. Ma non solo.
Il dilemma è: può la tecnologia sostituirsi completamente all’azione umana e supplire a tutti gli aspetti concernenti quella parte dell’uomo che vengono raggruppati storicamente sotto il nome di anima? Può una macchina antropomorfa essere un valido surrogato, progressivamente accettato e inglobato nell’immaginario collettivo e nella cultura quale protagonista delle vicende umane, quali la morte?
L’attività sostanziale nell’affrontare filosoficamente i problemi (contemporanei) posti dall’intreccio tra tecnologia ed etica, specificatamente nell’ambito della telemedicina, è quella di assicurare che il rapporto (fiduciario) medico paziente, si possa sviluppare con chiarezza e seguendo gli stessi principi che hanno caratterizzato l’evoluzione del pensiero occidentale, individuando e isolando ciò che permane e sta alla radice nella relazione tra gli individui e ciò che è più contingente a un particolare momento storico e sociale. Ciò che si ripete nella vita e diventa la vita stessa.
Classico quindi è riconoscere la permanenza delle stesse condizioni e la validità degli stessi principi che hanno alimentato lo sviluppo storico dei rapporti umani, riconoscendo immutabili determinate passioni e pulsioni; e quindi cogliere cosa concretamente permane, nelle relazioni tra gli individui e nelle loro vicende. Ciò che è presente già agli albori della tragedia greca e del pensiero filosofico. Perché nulla è più moderno del viaggio sempre nuovo alle radici del nostro pensiero occidentale.
Etica e filosofia: homo mensura
Dei filosofi di epoca classica, Protagora è molto probabilmente il primo e il più importante della cerchia dei sofisti. Nacque ad Abdera nel 490 a.C. ed è riconosciuto universalmente come il primo retore.
La Retorica viene definita da Aristotele come la “facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere”. E Protagora fu il primo maestro di retorica stipendiato di Atene; egli si distinse nell’utilizzo di una forma retorica che si era sviluppata nella Magna Grecia: la retorica psicagocica, ossia “trascinatrice delle anime” e che si rifaceva a Pitagora.
Anche questa forma di retorica, come quella dimostrativa, usata maggiormente dai sofisti, aveva per oggetto il verisimile, ma mirava alla persuasione, puntando non sulle capacità di ragionamento degli ascoltatori, bensì sulla loro emotività, ossia sulla capacità quasi magica del discorso, di ammaliare e di ingannare.
E a seguito di questa sua scelta la dottrina che contraddistinse Protagora divenne gnoseologica o forse più correttamente un relativismo contestuale, ovvero dell’uomo come misura delle cose. Oltre ad Aristotele anche Platone si interessa del pensiero di Protagora, arrivando a fargli dire nel Teeteto: “ciascuno di noi è misura delle cose che sono e delle cose che non sono, ma c’è un’enorme differenza tra l’uno e l’altro, e questo proprio perché a uno appaiono in un modo, a un altro in un altro” (Teeteto, 166d).
Non solo scetticismo e relativismo; Protagora ha un pensiero più profondo. La sua tesi non ha come referente il solo singolo individuo nella sua particolarità; la sua teoria è applicabile a ogni livello di umanità. Sarà tipica del singolo uomo, quando, ad esempio, sosterrà che un cibo dolce per un qualsiasi uomo sarà dolce, mentre per il malato sembrerà amaro. Oppure quando gli farà affermare che il retore è superiore al medico, perché ha una potenza persuasiva superiore. E sarà tipica di una comunità di individui e dell’uomo nella sua più ampia specificità.
Il significato letterale di questo discorso è chiaro: è l’uomo che decide quali cose sono e quali cose non sono, e che cosa esse sono o che cosa esse non sono. Tutte le cose, insomma, cioè l’essere, la verità, la giustizia, ecc. sono relative all’uomo.
Appare chiaro quindi che per Protagora non hanno valore i contenuti dei discorsi, dal momento che è impossibile stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, ma conta solo la loro forma argomentativa, che può essere più o meno efficace. Ma la sua dialettica, proprio a causa della mancanza di contenuti validi, era destinata a degenerare nell’eristica, cioè nella pura contesa verbale (cosa quanto mai attuale), contribuendo in tal modo a screditare la sofistica agli occhi di Platone e Aristotele.
E questo è un vero peccato, perché questo epilogo Protagora non lo merita; egli ci ha insegnato che nel mondo “sublunare” come lo chiameranno Platone e Aristotele, le vicende umane sono governate sempre dalla verità ma anche e soprattutto dall’opinione che gli uomini si fanno su di essa. Quindi solo l’uomo è in grado di dare misura, comunicare e dare conto della propria condizione esistenziale, di farla accogliere e accettare ad altri uomini, sia essa di giubilo, angoscia o disperazione, secondo i canoni della tragedia.
Si, perché anche per la tragedia ciò che conta è il modo in cui l’uomo può, senza sapere, preparare la propria rovina.